Ovvero: “Quella volta che andai su Reddit per cercare un Fellow Undead“.

 

Dicono spesso che giocare ai videogiochi in Italia è difficile. Dopo un Fazio che liquida tutto il medium con il termine ombrello “Super Mario, direi che non è un’affermazione del tutto sbagliata. Anzi, direi quasi che la ragione sta soltanto da una parte. Ma, se superiamo l’indignazione per quello che è successo a Che Tempo Che Fa, che cosa ci resta? Ci resta una community di videogiocatori compatta, solidale e ben equilibrata, forse? Magari ci resta una generazione di grandi videogiocatori dalla mente aperta, giovani che, in futuro, potrebbero cambiare la visione del medium in tutto lo Stivale. Meh, direbbe qualcuno.

Forse le cose non sono rosee come sembrano, o come ci piace sembrare. C’è, ad esempio, quella volta che mi ritrovai su Skype a parlare con un francese, facendo brainstorming su quello che sarebbe diventato un progetto di animazione. Quando mi parlò dei personaggi e del design, alla mente mi si affacciò nell’immediato la figura di Machinarium, un meraviglioso punta-e-clicca di Amanita Design. E allora, col timore di un timido bimbo impaurito dalle sue passioni “diverse”, gli chiesi se conosceva quel gioco, e se giocava ai videogiochi lui stesso. E il buon Guillaume mi rispose:

 

Of course I play games. Who doesn’t, nowadays? [“Certo che gioco ai videogiochi. Chi non lo fa, oggi?”]

 

Esatto, Guillaume. Chi non lo fa?

 

La risposta spontanea sarebbe “I nostri genitori”. Ma non è esattamente così.

 

La vera risposta è insita già nel mio cauto pormi nei confronti della domanda. Che, in altre parole meno pompose, vuol dire che avevo quasi paura di apparire come un degenerato e fannullone agli occhi del mio interlocutore, quando in realtà la risposta per lui era tremendamente normale – quasi scontata. È vero che una singola persona non può essere un campione rappresentativo di una popolazione intera (quanti francesi ci saranno che non giocano ai videogiochi?), ma è anche vero che la sua genuina risposta (“Who doesn’t?“), per quanto semplice e diretta, aveva colpito un nervo scoperto. Da quando vivo in Inghilterra (poco più di due mesi), non avete idea di quanti videogiocatori io abbia incrociato mentre ero al lavoro; quanti dei vostri amici italiani giocano ai videogiochi? Se siete oltre o vicini alla trentina d’anni, probabilmente saranno una manciata o poco più.

È un problema molto più che teorico, in realtà: quando raccontai l’accaduto al buon Pietro Iacullo, informatico anche nella vita reale, mi rispose che, agli occhi dei suoi colleghi al lavoro, lui ha la nomina di “Quello che gioca ai videogiochi“. Ed è un’etichetta che non puoi scrollarti di dosso – non importa quanti sforzi tu faccia. Tra i colleghi italiani di università, io stesso ero “Quello che gioca“, anche se in un ambiente umanistico venivo quasi rispettato per la mia visione artistica del medium. Colleghi che non ne capivano assolutamente nulla venivano a chiedere la mia opinione quando leggevano un qualche articolo controverso sui videogiochi, altri si limitavano a sparare sentenze non essendo consapevoli di esser rimasti fermi all’era delle sale giochi – almeno, mentalmente parlando.

 

Qui si parla di gente che non ha mai impugnato un pad, e che probabilmente reputa Pac-Man la più grande espressione videoludica mai realizzata. Che può essere vero entro certi limiti, ma assolutamente falso in altri casi.

 

Ma noi andiamo avanti con la nostra vita, convinti, in qualche modo, che le cose possano cambiare da un momento all’altro. Oppure, più semplicemente, preferiamo rinchiuderci in una endogamica comunicazione con i nostri “simili”, snobbando chiunque non sia disposto ad aprire la mente alle nostre opinioni “diverse” – e sono tanti, lo sappiamo bene tutti. Il problema è quando decidi di lanciarti in qualcosa di diverso per “vivere il videogioco in un altro modo”.

Prendiamo il mio caso, ad esempio. Per qualche motivo, un giorno mi son detto che sarebbe stato “interessante” fare un paio di run al primo Dark Souls per provare classi differenti – magari lo stregone, dato che son sempre stato un guerriero eclettico ed equilibrato. E, però, riaffrontare l’intero Dark Souls in solitaria mi “scazzava” un minimo: mi sarei divertito molto di più con una run in cooperativa.

A quel punto, mi sono ritrovato di fronte a quello che chiameremo “Dramma del Giocatore Solitario“, e che comprende tutte le situazioni che abbiamo descritto finora: pochi amici con il nostro stesso interesse, una cerchia ristretta di prescelti e, ovviamente, una minima varietà di scelta degli stessi. A chi potevo rivolgermi per un “progetto” simile? Chi poteva accompagnarmi nel mio viaggio per vincolare la fiamma? Ho molti amici videogiocatori, e molti di loro amano Dark Souls; ma erano veramente abbastanza? La risposta è semplice: no. Fatta eccezione per un amico che desiderava già Dark Souls (che gli ho poi regalato per il compleanno), tutti gli altri erano o troppo impegnati o non interessati alla cosa.

 

Detta in questo modo, sembra davvero che io abbia chiesto ad almeno una decina di persone. In realtà, la mia cerchia di amici complessiva si è ridotta a soli quattro o cinque che potevano accompagnarmi nel mio nuovo viaggio a Lordran.

 

A quel punto, mi è venuto in mente il mio YouTuber preferito: Criousgamers (a.k.a. ChilledChaos) ha messo su un canale di gaming in cui, semplicemente, gioca online regolarmente a una serie di titoli con i suoi amici. Ha quattro o cinque amici fissi, e altri che si alternano a rotazione; ma è comunque un “roster” di almeno dieci persone, disposte a giocare con lui a questo o quell’altro titolo. Una cosa del genere, in Italia, sembra quasi totalmente impensabile.

Quante volte avete visto un titolo multiplayer su Steam, e avete pensato che sarebbe stato molto più divertente giocarlo con uno dei vostri amici? Quante volte avete desiderato poter fare una partita online con quell’amico che, per necessità o pura e semplice tirchieria, ha comprato PS4 ma non è iscritto al PlayStation Plus? E quante volte avete evitato di acquistare Rust semplicemente perché non avevate nessuno con cui giocarci?

Stiamo generalizzando – e pesantemente, si intende. Ma il Dramma del Giocatore Solitario è proprio quello: avere amici che videogiocano, ma prediligono esperienze in Single Player – il che costringe anche noi a prediligere tali esperienze, in un circolo vizioso che chiude su se stesse, sempre di più, le comunità videoludiche italiane. Non è detto che vi ritroviate nella stessa situazione, come non è detto che non abbiate amici disposti a comprare insieme a voi qualunque gioco esca sul mercato, per divertirvi insieme online su Steam o su console. Ma qualcosa ci dice che la maggior parte dei lettori su queste pagine non vive un’esperienza del genere – anzi: probabilmente si rivedrà in tutte le parole che abbiamo scritto finora.

 

Persino Counter-Strike è meno frustrante se giocato in compagnia. Il problema, però, è trovarla, quella compagnia, e sperare che i vostri tempi liberi coincidano.

 

Ricordo ancora i bei tempi delle mie scuole dell’obbligo, quando uscì Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriot, con un comparto online così ben studiato che, genuinamente, non l’ho ancora rivisto in nessun gioco io abbia mai preso in mano da quel momento in poi. Metal Gear Online aveva i clan, e lì ho conosciuto alcuni dei più fidati amici della mia età adolescenziale, amici che poi, in larga parte, sono rimasti. Ricordo le ore passate a combattere in tornei con amici molto più grandi e bravi di me, ricordo le giornate intere in cui non giocavo altro se non Metal Gear Online. E ricordo insulti, alleanze, tradimenti e giochi di potere, rispetto e senso di appartenenza a una comunità solida. Tutte emozioni difficili da dimenticare.

Oggi, mi son rimaste soltanto le ore in attesa di una notifica da Reddit, su cui decisi di dirigermi per trovare un Fellow Undead che mi accompagnasse nel mio viaggio. E l’ho trovato, anche abbastanza velocemente: si chiama Tom, e non è un italiano.

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