Pietro Iacullo

Speciale Galeotta fu: l’etichetta “Soulslike”

From Software ha fatto innegabilmente scuola: ma merita che gli si dedichi addirittura un sottogenere? Ha senso parlare di Soulslike?

Diversi mesi fa, all’uscita di Nioh, in fase di recensione avevamo già sfiorato l’argomento. Una recensione, però – per quanto la posizione dei due autori di questa rubrica sia abbastanza aperta ad esperimenti di questo tipo –, non era il formato migliore per sviscerarlo: ne abbiamo parlato lo stesso, ma in relazione a Nioh e a quanto Team Ninja avesse messo su disco.

Potevamo tornare sulla questione un paio di mesi fa, in occasione dell’uscita della N. Sane Trilogy di Crash Bandicoot. Ma – di nuovo – abbiamo deciso diversamente: ci sembrava più interessante da una parte discutere le critiche al game design del Sonic’s Ass Game ideato da Naughty Dog (e qui si, la recensione è stata funzionale), e dall’altra capire se, messa da parte la nostalgia, Crash Bandicoot meritava davvero un posto d’onore nella storia dei videogiochi.

Quelle appena trascorse, in fondo, sono state giornate abbastanza calde e “infuocate”. Non solo per le temperature che, nel nostro Paese, sono ancora lontanucce dall’Inverno: Cuphead ha riportato l’utenza sui forum, sui social network e sui commenti agli articoli per decidere se sia o meno un “Dark Souls dei platform-game” quando in realtà i punti di riferimento del genere sono totalmente diversi. Il termine Soulslike ha ripreso a spuntare in maniera casuale in giro per il web, spesso usato da chi non sapeva neanche di cosa stesse parlando. Ed è facile capire la radice di questo fenomeno: “Soulslike” viene spesso – erroneamente – associato alla “difficoltà”, quando in realtà la questione è molto più complessa. Ma è giusto parlare di Soulslike, e utilizzare Dark Souls – e i suoi emuli e affini – come metro di paragone quando si parla di esperienze difficili, pad alla mano?

Dare una risposta a questa domanda è più difficile di giocare a un Souls. Noi ve ne daremo addirittura due.

L’Eredità di From Software

Come From Software ha rimodellato un genere, secondo Antonino Lupo

 

From Software tra colpe e meriti
From Software ha molte colpe in ciò, ma sicuramente altrettanti meriti. La sua eredità è evidente: da Demon’s Souls in poi, la software house ha coltivato una politica degli “Action-RPG difficili”, costruendo una intera serie su tali principi. Quello che From Software ha fatto, in realtà, è stato ripescare degli elementi tipici di alcuni giochi del passato, riproponendoli in chiave moderna con la propria, dovuta e indiscutibile originalità artistica. In questi termini, From Software non ha inventato nulla; ma il suo operato è diventato fonte di discussioni infinite, portando i suoi Souls a essere un vero fenomeno di massa conosciuto in tutta la cultura videoludica, e un punto di riferimento per l’utenza e l’industria intera.

Fast-forward a oggi: Dark Souls III è uscito da più di un anno, e si presenta come una conclusione per la serie. Si attende un Bloodborne II da un momento all’altro, e l’industria (sia Tripla-A che indipendente) continua a sfornare periodicamente dei titoli che si ispirano – più o meno apertamente – allo stile dei Souls, e che vengono dunque definiti, dall’industria o dall’utenza, “Soulslike“. Da Lords Of The Fallen al recente (e mediocre) Immortal Planet, passando per The Surge, Salt & Sanctuary e tanti altri, From Software ha in qualche modo influenzato a tal punto l’industria da rafforzare il genere degli ARPG, rimodellandolo a modo proprio con degli elementi indiscutibilmente “suoi”.

Il punto è che il termine Soulslike, per fortuna, non viene usato sempre “a caso”. Ci sono dei frangenti in cui il paragone è particolarmente azzeccato. Nell’opinione di chi scrive, ad esempio (e non sono Pietro, che vi dirà la sua poco più giù), NiOh ha degli elementi soulslike: è punitivo, richiede profonda pianificazione e strategia, ha un sistema di punti esperienza che si perdono permanentemente con due morti consecutive se non recuperati, ha dei boss di fine livello che vanno affrontati, studiati e approfonditi di continuo, spesso contraddistinti da delle fasi.

From Software non ha inventato praticamente nulla. Ma ha sicuramente rimescolato le carte in tavola.

Definire un sottogenere non distrugge necessariamente l’identità di un’opera
E per quanto il Game Design di NiOh vada molto più a fondo di Dark Souls per diversi motivi (non ultimi, una grande profondità di gameplay e una trama raccontata, piuttosto che suggerita sullo sfondo), il punto di partenza sembra essere proprio quello; e, facendo prima una partita a Dark Souls e poi una a NiOh, è impossibile non notare delle analogie. In altre parole, gli sviluppatori potranno anche aver fatto tutto il possibile per “distaccarsi” dall’eredità dei Souls, ma resta il fatto che hanno adottato uno scheletro e delle strutture indiscutibilmente analoghi. Che poi siano riusciti a costruire una propria identità al titolo, è indubbiamente un altro discorso; ma qui non stiamo discutendo di questioni identitarie. Un soulslike non è necessariamente meno originale o con un’identità più debole rispetto a un qualunque ARPG, altrimenti lo stesso discorso varrebbe per tutti i roguelike o i metroidvania (ci arriveremo a brevissimo). Persino Immortal Planet e Lords Of The Fallen, ad esempio, che si ispirano ancora più pesantemente all’eredità dei Souls, non fanno alcuna differenza in questo senso.

Non è un Soulslike, invece (nel modo più assoluto), un Crash Bandicoot: N. Sane Trilogy, così come non è assolutamente un Soulslike neanche il recente Cuphead. Entrambi si ispirano a generi di riferimento del tutto diversi, hanno un fine diverso e delle strutture diverse, ed è innegabilmente fuori luogo paragonarli a Dark Souls e affini solo per la loro difficoltà. Il problema, qui, è piuttosto prettamente semiotico e linguistico: quando si parla di Soulslike, infatti, si fa niente più che un’operazione analoga a quella già effettuata da altri termini – solo che, nel caso specifico, Dark Souls è diventato un fenomeno molto più “di massa” e conosciuto, portando a un abuso incontrollato del suo termine di riferimento. Non staremo a tediarvi con delle menate sul bisogno delle community di istituire un codice comune, ma è proprio quello il punto che vogliamo raggiungere.

Il bisogno di un codice
Tra roguelike e metroidvania: c’è tanto da imparare
Ci siano, finalmente, di esempio i termini roguelike e metroidvania. Il discorso è sostanzialmente simile, se non identico: un titolo roguelike (come possono essere un The Binding Of Isaac o un Rogue Legacy, per esempio) si ispira a Rogue, nato nel 1980 e oggi identificato come capostipite di un piccolo sottogenere di riferimento. Esplorazione a piani, dungeon-crawling, permadeath, tesori e segreti sono le parole chiave del Roguelike, insieme a livelli generati in maniera procedurale. Vi ricordiamo, per esempio, anche il recente Brut@l.

E poi ci sono i metroidvania: titoli appartenenti a un sottogenere di giochi di azione-avventura (generalmente a scorrimento orizzontale), con mondi interconnessi e un misto tra meccaniche platform e action. Il nome parla da sé: tutti i titoli appartenenti a questa categoria sono frutto della fusione progressiva delle meccaniche di Metroid con quelle di Castlevania (specialmente da Symphony Of The Night in poi), una fusione che ha portato alla nascita di un vero e proprio sottogenere noto a un gran numero di professionisti dell’industria, siano essi critici, utenti o sviluppatori in carne e ossa.

Entrambi gli esempi appena riportati sono, appunto, dei sottogeneri. Entrambi si rifanno a una macro-categoria di riferimento (quella degli action-arcade, a grandi linee, ma non necessariamente e con le dovute eccezioni), una categoria che rimodellano a modo proprio per costruire un discorso. Piuttosto che descrivere tutte le caratteristiche dei giochi appartenenti a tali sotto-categorie, critica e utenti hanno coniato nuovi termini per comprendersi meglio – un codice, appunto, che potesse aiutarli a comunicare e a intendersi, sia in fase creativa che semplicemente colloquiale.

Sia Roguelike che Metroidvania si rifanno a un sottogenere di riferimento, identificato in uno o più capostipiti. Un codice, nulla di più: semplifica la conversazione, e non toglie identità all’opera.

L’utilità del codice
Quando pronuncio il termine “roguelike“, mi aspetto che chi sta all’altro capo della conversazione comprenda perfettamente ciò di cui sto parlando, e che la conversazione sia intesa, semplificata e perfezionata dall’introduzione di un termine così sintetico. Allo stesso modo accade con soulslike, quando e se viene utilizzato in maniera propria: in sé, il termine accoglie una serie di elementi comuni a tutti i giochi di riferimento (anche se, ovviamente, ognuno con le proprie varianti originali), e permette di semplificare infinitamente la conversazione. Analogamente a quanto esposto poco sopra, il soulslike ha un macro-genere di riferimento – l’Action-RPG – da cui trae degli elementi per costruire il suo discorso. Che si tratti di perdita potenziale di punti esperienza, costante esercizio di riflessi e pianificazione, game design punitivo e così via, tutti i titoli che vengono definiti “soulslike” presentano generalmente tutte (o buona parte di) queste caratteristiche, che vengono al tempo stesso utilizzate per costruire una propria identità indipendente, autonoma e più o meno originale rispetto alla serie Souls.

In questo senso, From Software ha lasciato al mercato un’eredità consistente: un modo “diverso” di intendere gli Action-RPG, secondo un modello che una nicchia dell’industria sta già seguendo in abbondanza. I Soulslike non solo sono tutti categorizzabili e individuabili secondo una matrice comune – sono anche una realtà del videogioco contemporaneo, facilmente circoscrivibile a una nuova tendenza nel fare alcuni Action-RPG. A patto che il termine, un codice così utile in una conversazione tra esperti, appassionati o persino in fase di marketing, non venga utilizzato assolutamente a caso.

 

Doom è (già) passato di qui

Del perché “Soulslike” non possa ambire nemmeno ad essere un codice – proteste a cura di Pietro Iacullo

 

Il bisogno di un codice, dunque. Ecco cosa giustificherebbe – anzi, legittimerebbe – l’esistenza di un’etichetta come Soulslike. E, da informatico (ma anche da tizio che scrive articoli sul web) non posso che essere d’accordo sull’utilità che hanno i codici, perché accorciano le barriere che si creano tra un individuo e l’altro quando si ha l’esigenza di esprimere un concetto.

Il problema – e anche l’altra campana lo ha già messo in evidenza, tra le righe – è che semplicemente Soulslike non funziona come codice.

Un’etichetta che non è chiara nella testa di nessuno, e per cui non ha senso come codice
Perché con quell’etichetta non si indicano più solamente gli emuli e i presunti tali dell’opera di From Software, ma in generale qualunque titolo più difficile della media riesca a diventare mainstream e a raggiungere il grande pubblico. Ed ecco che all’uscita della già stra-citata N. Sane Trilogy più di qualcuno ha definito Crash Bandicoot “il nuovo Dark Souls” – tranquilli, è uscito solo con quei vent’anni di anticipo, era facile equivocare. Questo perché indubbiamente i prodotti From Software si sono fatti la nomea di sfida davvero hardcore (anche esagerata, secondo chi vi scrive: i titoli difficili sono ben altri – prendiamo un Ninja Gaiden a caso – i Souls sono “solo” parecchio punitivi), andando a riportare in auge nel ventunesimo secolo un’attitudine che impazzava nell’era dei cabinati e praticamente fino a buona parte della quinta generazione, prima cioè che i videogiochi si accorgessero di poter offrire dell’altro oltre alla semplice sfida. Ma proprio per questo, stiamo parlando di un’etichetta che ha una forte suggestione sulle nuove leve, ma che non si rivolge a tutti quei giocatori di vecchia data cresciuti in sala giochi. Viene meno il concetto di universalità, fondamentale per poter parlare di codice.

 

Doom

Doom ha già provato a descrivere un genere a sua immagine e somiglianza. Il risultato si è tradotto in una serie di scopiazzature, fino all’arrivo del vero Messia

 

Ma anche ammettendo che i giocatori più “anziani” siano la solita minoranza rumorosa, bisogna ammettere che non è ancora chiaro cosa voglia dire Soulslike: di nuovo, ne abbiamo avuto un esempio più su, con il sottoscritto che preso in esame Nioh ne rivendicava l’estraneità a questo presunto sottogenere, mentre il nostro Antonino – al contrario – lo inseriva a pieno titolo nel corpus di produzioni nel solco di From Software. Due opinioni agli antipodi, su una questione che se fosse davvero codificata precisamente non dovrebbe nemmeno sussistere. Nioh in comune con un capitolo della serie Souls ha la cattiveria ed i pochi riguardi con cui tratta il giocatore, in un mercato costellato di auto-salvataggi e altre semplificazioni, ma i punti di contatto bene o male si fermano lì. Un Dark Souls non è strutturato rigidamente in missioni e concede una più libera esplorazione, laddove Nioh è molto più “occidentale” dal punto di vista ruolistico e mette a schermo delle micro-aree non collegate tra di loro se non tramite il menu. Dark Souls – lo saprete meglio di noi – non segue una narrativa tradizionale, ma si affida a elementi più sottili e meno definiti, sussurrando e suggerendo piuttosto di spiegare. Propone una Lore, come ormai la definiscono tutti. O una Mitologia, come l’abbiamo tradotta noi (perché, per quanto Lore suoni meglio, molto spesso capita che l’interlocutore attribuisca al termine un significato non proprio esatto). Nioh punta invece sul Folklore – più strettamente legato alla tradizione e ben chiaro all’interno di una cultura – e mette in scena un racconto vero e proprio. Poi dal punto di vista delle meccaniche, si tratta in entrambi i casi di Action-RPG, e qui né From Software né Team Ninja possono prendersi il merito di aver inventato il genere. Nioh quindi ha tutte le caratteristiche per essere inserito fuori dal presunto sotto-genere Soulslike. Eppure più di qualcuno continua a farlo.

Il motivo? I giocatori vanno alla spasmodica ricerca di punti di riferimento, in un’industria che sta sempre di più rendendo i confini tra un prodotto e l’altro più sfumati.

la storia è destinata a ripetersi – e questa volta l’impatto è anche su scala molto ridotta
Ed è un problema per chi produce contenuti di un certo tipo, perché rischia di irritare letteralmente parte dell’utenza perché si allontana troppo dal concetto di base – si prende troppe licenze, come si direbbe in letteratura. Licenze che possono diventare dei giganteschi bersagli da demolire, laddove invece dovrebbero essere considerati punti di forza, visto che sono proprio quelle a conferire identità al prodotto (di nuovo, vi rimandiamo a quanto detto a proposito di Nioh). C’è il rischio di tendere alla standardizzazione, che è l’equivalente più prossimo alla morte quando si parla di processo creativo. Ed è già successo, nei primi anni ’90: dopo Doom, ogni sparatutto in prima persona veniva etichettato – e a ragione – come Doom Clone. E prodotti che meritano quell’etichetta se ne contano a centinaia, anche tra nomi che all’epoca erano illustri come Duke Nukem. Per uscire dall’impasse c’è stato bisogno di un certo Half Life, che ha riscritto completamente le regole del genere e ha proposto qualcosa in fortissima controtendenza con lo stampino con cui si stavano confezionando i prodotti di quel genere: estremamente narrativo laddove “la trama nei videogiochi è come la trama nei film porno”, poco frenetico e molto più improntato alla risoluzione di enigmi (e a stimolare le capacità di pensiero del giocatore) invece che affidarsi completamente a violenza, sangue e riflessi.

Ed è così che dai Doom Clone si è arrivati agli sparatutto in prima persona, ed è così che oggi chiunque si avvicini al genere ha l’imbarazzo della scelta: dai titoli Arena fortemente improntati al celodurismo del singolo – ma da sfoggiare contro gli altri – a sparatutto corali da vivere in squadra, passando per titoli che vogliono raccontare la loro e titoli che invece si concentrano sul single player ma allo stesso modo spingono sulle meccaniche, più che sulla narrativa. Ce n’è per tutti, ed è più di quanto si possa dire per l’etichetta Soulslike. Etichetta che tra parentesi include fondamentalmente solo titoli prodotti da From Software, un paio di titoli meh confezionati da Deck13 (Lords of the Fallen e The Surge, entrambi godibili ma dimenticabili) e poco altro. Anche dal punto di vista della quantità, quindi, l’etichetta sembrerebbe non aver ragione di esistere, a maggior ragione se si ripensa a Doom e all’impatto che ha avuto sulla nostra cultura: se nemmeno il mostro sacro di id Software è stato degno – sul lungo termine – vedere un sottogenere intitolato a lui, non sarebbe giusto concederlo a From Software. Limitiamoci, piuttosto, all’etichetta di Soulsclone, più intellettualmente onesta e meno limitante dal punto di vista concettuale (perché se uno sviluppatore vuol fare dell’altro, non ha così la necessità di seguire pedissequamente il solco di Dark Souls).

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