Stefano Calzati

Speciale Racconti Ludici – Zelda: Breath of the Wild

Prologo
Il Risveglio
Il sole tramonta alle pendici del monte di Ranel, inondando la vallata di un tumultuoso fiume d’ambra. Il sacro sigillo giace ancora sopito in cima al monte, nonostante le preghiere della nostra principessa, che è ora al mio fianco stanca, triste, abbattuta; uno stato d’animo che lotta e viene sconfitto dalla bellezza radiosa e indescrivibile della sovrana di Hyrule, baciata dagli ultimi raggi di sole, eterea nella sua lattea tunica impreziosita dall’oro dei suoi capelli. I nostri compagni, quattro dei più valorosi campioni del regno, la gerudo Urbosa, il goron Daruk, il rito Revali e la zora Mipha, attendono colmi di speranza il nostro ritorno; ignorano le pessime notizie che porteremo.

 «Beh? Com’è andata, principessa? La preghiera sulla montagna sacra!», chiede Daruk, pur avendo già letto la risposta negli occhi di Zelda.

 «Il potere del sigillo non si è risvegliato, eh?», continua Revali in tono sarcastico, quasi a nascondere le proprie preoccupazioni.

 «Avete fatto del vostro meglio, principessa. Se non ha funzionato, pazienza», predica Urbosa, con la saggezza che la contraddistingue. Forse c’è davvero un altro modo per risvegliare l’antico potere che protegge Hyrule; nessuno di noi può permettersi di perdere la calma in questo momento.

 Il panorama è incantevole. I suoni della natura sussurrano alle orecchie dolci e confortanti parole; e, in quell’istante in cui lo scoramento stava per venire sostituito da un tenue ottimismo, la terra comincia a gridare frasi sconnesse e minacciose, percuotendo i cuori dei presenti. Una violenta scossa di terremoto, come mille Goron che battono i pugni sulla nuda roccia, seguita dal rombo mortale di fulmini rosso sangue che sgretolano la perfezione del tramonto. Revali si alza in volo, puntando istintivamente lo sguardo verso il glorioso castello di Hyrule; sta succedendo.

 «Si è… Risvegliato», sussulta la principessa, i cui occhi di smeraldo urlano un terrore che una tale innocenza non dovrebbe mai provare. Le splendenti guglie del palazzo reale sono ora avvolte da cirri violacei, emanazioni maligne della Calamità Ganon, attesa e temuta ed eppure così imprevista. La nera anima dell’usurpatore volteggia in segno di sfida, mentre le tenebre calano sul mondo come la scure di un boia.

 «…glia… eglia… veglia… Sveglia… Signore, sono le 5 del mattino… Si alzi, su, abbiamo già sellato il suo cavallo… Ma si sente bene, signor viandante? Se non si decide ad alzarsi le chiederò altre 10 rupie!»

 Mi sveglio annaspando, come portato in salvo dall’incubo in cui stavo annegando. Non un vero incubo, esclusivo frutto della mente, ma un ricordo di 100 anni fa, tornato a galla dopo ore di galoppo sotto il sole della Piana. Il padrone dello stallaggio, dopo il brusco e provvidenziale risveglio, mi guarda sorridente.

 «Era ora, signore, era ora! Cosa vuole per colazione? Offre la casa. Ha proprio la faccia di uno che ha appena visto Ganon, se lo faccia dire!»

 Questa sarà l’ultima tappa, prima di partire alla volta del deserto Gerudo e del colosso che una volta proteggeva quelle lande roventi. Meglio godersi questa pioggia battente per l’ultima volta; le prossime nuvole che vedrò saranno quelle delle tempeste di sabbia. L’odore dell’erba bagnata riporta la mia mente ad un ricordo lontano, talmente lontano e vago da sembrare immerso nella nebbia; eppure, esso è così piacevole da spingermi a meditare sotto un melo, mentre le fresche gocce di pioggia mi bagnano il capo. Allo stallaggio la routine sta per ripartire, quell’ingranaggio sempre in movimento composto da guardie, viandanti, commercianti, allevatori e animali. È un piacevole scorcio di normalità, in questo presente in bilico.

 «Signore, la colazione è pronta! Carne glassata levafatica, il piatto ideale per chi deve affrontare un viaggio lungo e tortuoso verso le terre Gerudo!», mi urla lo stalliere. L’idea di mangiare quel pasticcio non è esaltante, però forse ha ragione: meglio non fare gli schizzinosi. E poi, “bisogna entrare nell’ingranaggio”: è ora.

 Dopo aver trangugiato il bizzarro ma rinfrancante pasto e aver cucinato provviste e pozioni per il tragitto, mi accingo a salire sul mio fido Zeus. All’improvviso, un carismatico anziano, mani intrecciate dietro la schiena curva, si avvicina.

 «Giovane, hai proprio un bel destriero, complimenti. L’hai catturato tu stesso?», esordisce. Annuisco. «Sai che su quella collina là in fondo, dopo il ponte», continua il vecchio, «si dice che si aggiri il nipote del cavallo bianco della principessa Zelda? Diamine, se era meraviglioso… Il solo vederlo rinvigoriva il mio spirito».

 Sentire quel nome mi lascia sempre stordito per un attimo, mentre vaghi ricordi di cavalcate si fanno strada come torce in una grotta oscura.

 «Se ti capita di incontrarlo», conclude il vecchio, «perché non provi a domarlo, e poi me lo mostri quando torni da queste parti? Te ne sarei eternamente grato!»

 Annuisco ancora. L’idea di rendere felice un uomo così cordiale non mi dispiace affatto, e la mia benevolenza viene ricompensata da un piacevole saluto:

 «Buona fortuna, giovane guerriero.»

 

Capitolo I
Domando il Destino
Senza neanche rendermene conto, mi dirigo verso quella verde asperità che forma una cupola d’erba e di eleganti alberi, in cerca, forse, di una traccia della mia principessa. Arrivato alle pendici della collina, Zeus si intestardisce, sbuffa, si punta e non si muove più, e la pioggia intanto si è fatta via via più intensa. Scendo dalla sella e, dopo una carezza sul muso del fiero animale, mi dirigo a piedi nel fitto del boschetto, dove un paio di cinghiali e uno scoiattolo mi scortano col loro sguardo interrogativo verso l’ennesimo vergine anfratto da ricollocare nella memoria.

 Superato il bosco dalle grazie senza tempo, continua la risalita del colle, dove l’erba alta e i fiori colorati ondeggiano dolcemente al ritmo delle raffiche di vento. Arrivato in cima, una forte raffica spazza la foschia accumulata sull’alta collina di fronte a me, rivelando antiche rovine. Una terrazza con al centro un cavallo rampante di pietra grigia, ancora finemente scolpito nonostante lo scorrere incessante del tempo.

 Un raggio di sole buca le nubi plumbee per qualche secondo. Al termine del caldo spiraglio, ai piedi della salita, s’illumina una criniera dorata che, incurante del maltempo, adorna il capo di un candido animale intento a brucare il suo verde pasto. Un istante dopo, il tepore mi accarezza la fronte.

 «Avevi ragione, bastano un po’ di calma e pazienza per conquistare la fiducia di un cavallo», dice la principessa, improvvisamente al mio fianco in tenuta da viaggio, sorridente e piena di speranza, mentre cavalchiamo verso il monumento su per la collina. «Grazie ai tuoi consigli sono sicura che noi due diventeremo ottimi amici! Imparare a capire le emozioni degli altri è molto importante.»

 Lusingato e un po’ imbarazzato, sento il profumo della bella stagione, portata in trionfo dal cinguettio costante degli uccelli.

 «Lo vedi quello?», chiede la principessa. «È il monte di Ranel, ed è un luogo sacro a Nayru, la Dea della Saggezza. Conosci la tradizione: chi non ha compiuto diciassette anni è considerato immaturo, e quindi non può recarsi sul monte». Lo sguardo della principessa si fa cupo, e la sua espressione diviene specchio delle paure che porta nell’anima. «Né alla fonte della forza, né a quella del coraggio i miei poteri si sono manifestati… Ma su quella montagna sorge la fonte della saggezza, e forse…». La sua voce trema, tituba, incerta per qualche istante. Poi torna sicura: «Domani compirò diciassette anni. Devo provarci!», dice, con la paura quasi del tutto scomparsa dal suo sguardo.

 La forza della natura è un pugno in pieno volto che mi riporta alla realtà. Il tuono romba con tutto il suo potere, sordo e fragoroso, quando un fulmine colpisce in pieno la statua dello stallone. L’aria tutt’intorno si carica di elettricità statica, e un’altra saetta colpisce l’albero alle mie spalle, incendiandolo. Corro e apro la paravela al culmine del colle; il candido manto del cavallo reale guizza sulla distesa d’erba sottostante. L’animale è confuso, assordato; il panico lo sta per sopraffare. Decido di planare verso di lui e lanciarmici in groppa; il destriero nitrisce disperato, scalcia, si imbizzarrisce, mentre cerco di calmarlo con delle dolci carezze. Forse, quello è veramente il nipote del destriero di Zelda. Forse in lui, atavica, si nasconde la consapevolezza di una mano amica, quella che aveva rassicurato più volte il nonno cento anni prima.

 L’animale scuote la testa, sbatte qualche volta gli zoccoli, producendo suoni sordi sul terreno bagnato, come per prepararsi al ritmo dell’imminente cavalcata. Le orecchie fischiano ancora: troppo rumore, troppo caos. Tentacoli si allungano sulle ringhiere della terrazza per poi ghermire l’elegante statua. Un occhio ancestrale ci scruta, infondendoci in corpo disagio, terrore e adrenalina. L’istinto mi fa battere i tacchi sui fianchi del destriero. Lì, dove c’è ancora la nostra ombra, si schianta un raggio talmente blu da sembrare filtrato attraverso uno zaffiro. Non è ancora tempo di affrontare il guardiano.

 Ci lanciamo a rotta di collo sulla strada inversa verso lo stallaggio, verso lo stretto ponte sul burrone, verso l’unica speranza di salvezza. La pioggia incessante e gelida riduce la mia vista, il panico ovatta la mente e i riflessi, e l’antica macchina, una volta amica, è ormai un predatore inebriato dall’odore del sangue. Sotto i suoi colpi vengono distrutti il boschetto e messi in fuga i suoi abitanti. Qualche freccia elettrica lo rallenta ma non lo scalfisce: l’automa è progettato per resistere ai poteri di Ganon, e fa il suo dovere fino in fondo. Solo un punto debole è conosciuto.

 Vicini al ponte rivediamo Zeus, che parte subito al galoppo fiutando la letale minaccia. Appena superato il diroccato passaggio sul fiume strattono la criniera del mio nobile cavallo, il quale si alza su due zampe nitrendo terrorizzato; appoggio una mano sulla tavoletta Sheikah, sfiorando il simbolo Stasys e puntandolo verso la morte, ora a metà del ponte. Qualche secondo di tregua: accecato dalle gocce cariche di elettricità, avvicino istintivamente indice e pollice alla faretra, scegliendo con cura l’unica freccia ancestrale che mi rimane, letale antidoto contro i Guardiani. Sfilo l’arco, posiziono la freccia, fletto il braccio, e nel buio miro all’unico bagliore ormai visibile. In quell’istante, l’occhio maligno che mi guardava pieno d’odio inespressivo e glaciale diventa grande come il cielo; lascio andare la freccia, e con lei, per un attimo, tutto il peso che grava sulle mie spalle… Le spalle dell’Eroe Hylia.

 

Capitolo II
Sotto mentite spoglie
Dicono di avermi trovato riverso nel fango, con i due cavalli sempre al mio fianco, guardiani della mia vita. La mattina seguente, ero stato svegliato dal vecchietto che mi aveva narrato del cavallo bianco, e sembrava la persona più felice del mondo: finalmente aveva potuto rivedere il famoso destriero che lo aveva stregato durante l’infanzia. Per ringraziarmi, mi ha donato gli ornamenti finemente intarsiati della casa reale, gli stessi che indossava il nonno della mia Venere (così l’ho chiamata, dopo aver capito che si trattava di una femmina). Chissà dove li aveva trovati, per poi conservarli tutto questo tempo in attesa del suo ritorno.

 Ho appena superato il ponte che collega la piana di Hyrule con le roventi terre Gerudo, dove il fiero popolo che dà il nome a queste lande desertiche prospera in un matriarcato proibito agli uomini di ogni razza; è quella la mia meta, ed è lì che scoprirò cos’è accaduto al colosso sacro Vah Naboris, un tempo agli ordini della campionessa Urbosa.

 Pozioni e abiti leggeri mi proteggono dalla soffocante temperatura. Inalare l’aria dà la sensazione di ingoiare una cucchiaiata di olio bollente, mentre il riflesso del sole sulla sabbia rischia di ustionarmi il viso. Al piccolo trotto arriviamo finalmente all’ingresso del canyon Gerudo, provvidenziale rifugio dalla calura del mezzogiorno. Poco prima della fenditura, un viandante al riparo sotto una palma, sfinito, è alle prese con una noce di cocco.

 «Ehi, tu, guerriero, potresti darmi una mano?». Scendo dalla sella, sorrido e saluto con un cenno della mano. «Stavo tornando alla piana dopo aver fatto affari all’Oasi», continua il viandante, «ma a quest’ora il sole uccide, eh, ne dovresti sapere qualcosa!». Il suo sguardo si sposta sulla mia schiena. «Vedo che hai una spada! Potresti rompere questa noce di cocco? La mia lama si è distrutta mentre lottavo con un Bokoblin».

 Sconsolato e abbattuto, il viandante sembra però un po’ sollevato mentre gli porgo le due metà della noce, tra cui una colma d’acqua. «Ma tu… Tu sei l’eroe Hylia, vero?», mi chiede, strabuzzando gli occhi. «L’ho capito fin dal momento in cui ti ho visto all’orizzonte… L’ho capito dalla tua fierezza!».

 Il suo sguardo, colmo di riconoscenza, sembra ora quello di un folle. Un ghigno inumano tende la pelle ai lati della bocca, mostrando denti incredibilmente candidi, come se fossero finti, di porcellana. «Ora finalmente potrò aprirti in due la testa come hai fatto con questo cocco», dice, sbattendo nella sabbia il frutto. «In nome del clan Yiga!», urla poi, scagliandosi contro di me.

 Yiga, la banda che serve Ganon dando la caccia all’Eroe; questa diceria, ascoltata al villaggio Calbarico, si sta materializzando davanti ai miei occhi, mentre il viandante sparisce in una nuvola di fumo dall’odore pungente e sulfureo. Ecco la vera natura del mio interlocutore: un ninja letale in completo rosso, con il volto coperto da una benda bianca su cui spicca un simbolo insanguinato, simile a quello degli Sheikah. Il falcetto che brandisce brama la vita in nome della calamità.

 In un attimo, il viandante mi è addosso. Riesco a proteggermi con lo scudo per un soffio, spingendolo indietro, ma il mio avversario sparisce ancora, per poi riapparire sopra la mia testa a circa 10 metri da terra. Schivo l’attacco: il tempo sembra rallentare. Sfodero la spada, sottratta ad un guardiano incontrato in un sacrario, e dall’elsa metallica scintilla una lama irregolare, composta da un fascio di luce blu come l’ultimo ricordo di quella giornata tempestosa.

 I fendenti della mia spada lo raggiungono con immane potenza, tanto da lasciarlo in ginocchio, rantolante, sconfitto. Una palla di fuoco lo avvolge fino a farlo scomparire, ma, durante la fuga, il mio avversario lascia cadere i suoi averi: rupie, l’arma dell’aggressione, un casco di banane, un arco capace di scoccare due frecce contemporaneamente.

 Mi volto: un’altra minaccia sul mio cammino, con altre innumerevoli entità che cercano di frenarmi, eliminarmi, sopraffarmi. Con un sospiro rinfodero le armi, e accarezzo Venere con delicatezza. Il sole è ancora alto, ed è meglio procedere verso il canyon, verso un accenno di civiltà e sicurezza.
 

Capitolo III
Il Canyon
Le pareti di roccia rossa mi circondano, incutendo claustrofobia e rispetto. Levigato dal vento, il corridoio di pietra forma un’elegante serpentina tra i due altopiani, permettendo, con un semplice sguardo verso l’alto, di scrutare solo un fiume di cielo, pacificamente azzurro. Sembra quasi di guardare in basso, in punta di piedi su una scarpata, con il corpo proteso verso il vuoto. Non ci vuole molto prima che capisca che non esistono vie di fuga per proteggermi da eventuali pericoli: si può solo andare avanti.

 Un branco di coyote abbaia e ringhia, intimorito dalla mia presenza, per poi dileguarsi in uno sbuffo di sabbia. Le raffiche di vento sono forti come fendenti, ma intorno a me non c’è nessun mostro, nessuna minaccia. Questa inquietante tranquillità mi tiene all’erta. La mia memoria è ancora in parte immersa nell’inconsapevolezza, pur avendo imparato nuovamente molte cose su queste terre dal mio risveglio al sacrario. La paranoia mi fa pensare ad un attacco imminente, un agguato inaspettato.

 Ai piedi della parete destra noto dei fiori, delicati nell’aspetto, bellissimi come la principessa, il mio ricordo più vivido; resistono nel deserto come lei sta resistendo nel Castello di Hyrule. Un tonfo sordo mi desta dai pensieri: dal bordo del canyon, vedo una serie di massi cadere, come sputati da un Oktorok fuori dal fiume. Siamo in salita, e i massi sbattono sulla sabbia con un fragore ovattato, per poi cominciare la loro inesorabile discesa: il dietro-front non è più un’opzione valida ormai. Stringo le redini della cavalla, le faccio schioccare e la sprono; i muscoli dell’animale si contraggono e poi esplodono in una corsa fulminea, verso la rotolante minaccia.

 Scartiamo la prima roccia a sinistra, per poi saltarne con un balzo una più piccola; le ultime due sembrano immense, poste fianco a fianco come a volermi sbarrare la via. Faccio gentilmente girare di lato Venere, che, piena di fiducia, non protesta. Sfilo due frecce bomba dalla faretra e le posiziono nell’arco Yiga; in fondo, quell’incontro è stato provvidenziale. Una volta scoccate, le due frecce colpiscono contemporaneamente i due massi, facendoli detonare in una fragorosa esplosione acuita dall’eco. So che qualcuno mi osserva: grugniti giungono alle mie orecchie dalle altissime pareti.

 Senza rendermene conto, il sole è ormai tramontato. Secondo la mappa ho da poco superato la metà del canyon. Decido di accelerare il galoppo, fuggire dal pericolo. Ai lati del corridoio verticale cominciano ad apparire strutture, passerelle in legno che portano fino in cima, con punti di vedetta a distanza regolare. Sento un corno suonare e rimbombare da una parete all’altra; i grugniti aumentano. Sfodero la spada senza alcuna intenzione di fermarmi. Piovono frecce come un acquazzone in un pomeriggio estivo, ma gli arcieri Bokoblin sono troppo lenti e imprecisi, troppo stupidi. Mi volto per lanciare qualche freccia e metterli in fuga, quando mi ritrovo con la faccia dritta nella sabbia. Bianche stalattiti illuminano i granelli intorno a me, ormai blu notte. Enormi scheletri sorgono dal terreno, rinascendo a nuova vita. Il destriero si rialza subito, scappando qualche metro più indietro, con il terrore negli occhi e un nitrito di sorpresa.

 Sono disarmato. Un plotone di Bokoblin arriverà a momenti. Creo una bomba con la tavoletta Sheikah ancora saldamente alla mia cintura, facendola rotolare tra il gruppetto di esseri immondi tornati in vita al chiaro di luna. Fischio, e Venere giunge al galoppo. La bomba detona, spargendo ossa frantumate tutt’intorno in un ancestrale bagliore che illumina il buio squarcio nella roccia. Lascio cadere un altro esplosivo per coprire la fuga, e semino i miei inseguitori una volta per tutte.

 I tremori prodotti dall’adrenalina della battaglia si trasformano presto in brividi di freddo, causati dalla letale escursione termica del deserto. Nella notte, scorgo finalmente una luce calda: persone, cavalli, bambini pronti ad essere portati a letto. Chiudo gli occhi e sospiro, lasciando cadere a terra tutta la tensione. Sopra di me, una volta stellata splende come non ho mai potuto vedere in vita mia.

 

Capitolo IV
Luna Rossa
Nonostante il turbolento viaggiare, il sonno non mi ha ancora abbracciato. Mentre tutti i viandanti si riparano all’interno dello stallaggio, raccontando le loro avventure e la loro giornata, decido di uscire a prendere una boccata d’aria.

 «Oggi sono stato nel deserto», racconta un commerciante. «Stavo andando all’oasi, quando d’un tratto una tempesta di sabbia mi ha sorpreso. Così, all’improvviso vi dico!». L’uomo gesticola animosamente mentre racconta le sue disavventure, e il suo pubblico lo ascolta con attenzione. «Poi, ho capito. Era il colosso, vi dico, si sta spingendo fino agli insediamenti, e tra poco arriverà anche alla cittadella Gerudo! Terribile, davvero terribile… Immenso, davvero immenso! Lanciava fulmini da tutte le parti, come se stesse creando una vera e propria tempesta!».

 Lascio il commerciante ai suoi racconti e mi dirigo alle porte del canyon, la via d’uscita tanto sperata. La vista è spiazzante: dietro di me solo roccia rossa e passaggi angusti, e davanti a me una distesa sconfinata, di giorno dorata, ora di un tenue azzurro illuminato dalla luna. In lontananza si intravede l’oasi di cui parlava il viaggiatore, e ancora più distante posso giurare di scorgere la luce delle torce che fanno brillare la cittadella. Decido di arrampicarmi sulla parete del canyon, mai così bassa come in quel punto. Voglio godermi il panorama.

 Ansimando arrivo in cima, poi mi sporgo sul precipizio. La landa sottostante sembra un mare dalle onde immote, sconquassate da un gigante dalle fattezze di un cammello. Vah Naboris sbatte le sue zampe sulle dune, alzando nubi cariche di letale elettricità, pericolosamente vicino all’insediamento dei viandanti. Si lamenta, urla, si accanisce contro qualcosa che forse solo lui riesce a vedere. Soffre. Devo placarlo il prima possibile.

 D’un tratto il mare diventa sangue, e il senso di pace che provavo fino a qualche attimo fa ha lasciato il posto all’angoscia. Il tessuto blu scuro del cielo, impreziosito da brillanti ricami, è ora di un cremisi acceso. La luna, che prima era una perla perfetta, ora si tinge di fuoco, mentre nubi scarlatte si addensano ad una velocità fuori da ogni logica di tempo e spazio.

 «La notte della Luna Rossa è tornata. Stai attento, Link». Una voce familiare mi chiama per nome: la voce eterna di Zelda, che mi parla dalla sua prigione. La voce per cui combatto.

 Il satellite sembra guardarmi, sfidarmi. È Ganon, i cui artigli invisibili sembrano conficcarsi nella mia testa. Le orecchie fischiano; cado in ginocchio. Il paesaggio torna ad essere un dipinto dalla bellezza commovente, mentre il canto dei grilli lenisce i miei timpani. Questo evento maligno mi dona ancora più consapevolezza e determinazione.

 Lo sconfiggerò. È il mio ineluttabile destino, quello per cui sono stato nominato campione cento anni fa. Il peso del mondo grava sulle mie spalle, ora molto più forti di prima.

 Aspettami, o mia principessa. Sto venendo a salvarti.

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