Nintendo Switch, per la casa di Kyoto, è la console della svolta. Non perché prova, per l’ennesima volta dai tempi di Wii, a riscrivere le regole del mercato tradizionale, e nemmeno perché, tenendo conto del fallimento di Wii U e della coperta innegabilmente sempre più corta sul fronte delle console portatili (segmento cannibalizzato dagli smartphone), per Switch passeranno le ambizioni della casa per la prossima generazione: no, molto più banalmente Switch è una svolta per Nintendo perché, per la prima volta dai tempi della transizione da Nintendo 64 a GameCube, abbandona la retrocompatibilità con la macchina precedente. E, come scritto nel titolo, è giusto così.

 

 

Lezione numero uno: identifica il tuo target
Chi ha tempo per il retrogaming quando ha la sua pila della vergogna?
Sulla carta la retrocompatibilità, specie nei primi mesi di vita di una nuova console, è una funzionalità di cui non privarsi così a cuor leggero: di fatto si mette a disposizione del giocatore potenzialmente tutto il parco titoli della generazione precedente, aiutando a rimpinguare la lineup disponibile al lancio. Ragionamento legittimo, se l’industria non si fosse evoluta drasticamente rispetto agli anni ’90 e ai primi 2000: se per esempio PlayStation 2 può aver tratto vantaggio dai rimasugli dell’offerta della prima PlayStation, al giorno d’oggi escono nuovi videogiochi senza soluzione di continuità e spesso e volentieri gli appassionati faticano a sostenere questo ritmo, tant’è che accumulano nel corso delle generazioni quella serie di vorrei ma non posso che in gergo siamo ormai abituati a definire “la Pila della Vergogna“, quella lista di titoli acquistati (magari dai classici cestoni del supermercato di fiducia o durante i saldi) e abbandonati nelle loro bare di plastica e cellophane, spesso nemmeno rimossi dalla confezione.

 

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Come si nota non sono un grande giocatore PC (solo 136 ore giocate), eppure non ho avviato il 61% dei titoli messi in libreria

 

Chi è, dal punto di vista videoludico, l’early adopter?
Abbiamo preso a modello non a caso l’appassionato (trascurando quelle tipologie di giocatori che invece, in un anno, si accontentano di acquistare una manciata di titoli), dato che nella maggioranza dei casi è questa la figura che si presta al gioco degli early adopter ed acquista una nuova console alla sua uscita. Nella pratica quindi, pur avendo a disposizione una feature la cui assenza, a tratti, sembrerebbe essere drammatica per l’utente, il giocatore alla fin fine andrebbe ad utilizzarla in modo assolutamente marginale. E a questo punto si potrebbe obiettare che quanto espresso “non è una motivazione sufficiente” per decidere deliberatamente di non rendere la nuova console compatibile con la libreria della vecchia, visto che alla peggio si tratta comunque di un’opzione in più a cui ricorrere; di nuovo, ragionamento legittimo, ma solo finché non si considera quanto costa, tanto a chi realizza la macchina da gioco quanto a chi la acquista in negozio, una feature come la retrocompatibilità.

 

Dove stiamo andando non c’è bisogno di strade, però è pieno di Switch
Due strade: quella hardware, più facile ma anche più costosa (o vittima dei compromessi) …
Prima di approfondire l’ultima informazione va aperta una parentesi scacciafig contestualizzato il modo in cui può essere raggiunta la retrocompatibilità all’interno di una nuova macchina. Le strade sono essenzialmente due: via hardware, inserendo sotto la scocca della console anche la componentistica (o parte di questa) della vecchia macchina, oppure via software, ignorando bellamente la questione e lasciando tutto il lavoro sporco a quegli Umpa Lumpa dell’Informatica che sono i programmatori. La prima scelta è quella più “pigra”, relativamente facile da implementare (certo, bisogna capire bene dove mettere cosa ed evitare complicazioni spiacevoli alla Red Ring of Death, ma a parte quello la strada è in discesa), ma d’altra parte più costosa da realizzare. I componenti hardware, infatti, hanno il brutto vizio di costare denaro, ed inevitabilmente questo va a riflettersi sul prezzo finale della console. Contestualizzando con un esempio pratico, alcuni modelli di PlayStation 3 agli esordi (la ben nota “PlayStation 3 da 60 GB“) seguivano questa strada per riuscire a far girare il software di PlayStation 2. Risultato? La macchina Sony costava molto più di quella offerta dalla concorrenza, e alla fine i modelli successivi hanno tagliato la feature. In alternativa, come fatto ad esempio da Wii U nei confronti di Wii, l’architettura della nuova macchina va pensata sulla base di quella vecchia, in modo che entrambe siano compatibili (stiamo ovviamente semplificando al massimo). Tutto molto bello, ma inevitabilmente ciò va a mettere paletti alla libertà dei progettisti, che devono riuscire a garantire una certa compatibilità tra le due configurazioni. Tradotto: anche se ti ritrovi ad avere un’architettura che mette più in difficoltà chi realizza giochi (e, di nuovo, è il caso di PlayStation 3), devi partire da quella per creare la nuova console, anche a costo di scontentare gli sviluppatori. Ed è inutile ribadire come scontentare gli sviluppatori, che sono poi quelle figure che nell’ombra fanno il successo della tua macchina, sia un suicidio: l’architettura proprietaria di PlayStation 3 parlava una lingua che i developer hanno impiegato anni a capire, con il risultato che nel frattempo i titoli multipiattaforma giravano meglio su Xbox 360. PlayStation 4 invece, pensata strizzando l’occhio più e più volte ai developer (concetto che ha praticamente permeato tutto il lavoro fatto da Sony dietro la macchina), di contro si è dimostrata da subito un successo e, ancora oggi, beneficia di conversioni che mediamente (salvo alcune eccezioni specifiche) viaggiano meglio rispetto alle loro controparti per Xbox One.

 

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In Africa, ogni mattina uno sviluppatore si sveglia e sa che dovrà correre più veloce del processore CELL di PlayStation 3

 

… O quella software, seguendo Microsoft. Ma ne vale la pena?
La seconda opzione, come accennato, è quella di andare dal proprio pool di sviluppatori e dir loro di scrivere un emulatore software da far girare sull’hardware pensato dai progettisti. Facile a dirsi, non così immediato a farsi: non c’entra (almeno, non solo) la potenza bruta che si ha a disposizione, ma bisogna valutare la componentistica che c’è sotto la scocca e cercare di capire se è possibile (e come) fare in modo che simuli il comportamento dell’hardware da emulare. Da questo punto di vista è verissimo che non ci sono spese (o compromessi) lato hardware, ma il lavoro che c’è dietro è potenzialmente immane. Microsoft su Xbox One ha seguito questa scelta e deciso di investire tempo e risorse in questo senso, ma anche in questo caso la scelta va contestualizzata: come detto più volte da Phil Spencer, l’obiettivo di Redmond non è quello di vendere più unità possibili, ma di attirare utenti sulle loro piattaforme, essenzialmente perché buona parte di questi poi garantiscono entrate mensili grazie all’abbonamento Xbox Live Gold. Cosa c’entra con la compatibilità della libreria 360 su One? Facile: grazie a questa manovra, l’offerta del Games with Gold si è arricchita aggiungendo altri due titoli al mese per gli abbonati, e rendendo l’offerta sulla carta più ghiotta di quanto si può vedere dalle parti della concorrenza su PlayStation Plus. Da questo punto di vista, oltre ad aver seguito un ragionamento logico e sensato, Microsoft ha compiuto una sorta di miracolo ingegneristico, simulando un’architettura completamente diversa da quella di Xbox One.

 

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Venendo al punto
Quindi?

Fai contenti gli sviluppatori e piazzerai 40 milioni di unità in tre anni. Ps4 docet
Quindi le alternative per Switch, volendo a tutti i costi offrire la retrocompatibilità, erano due: entrare nel mercato di fatto a metà generazione, cercando di vendere una nuova macchina a costi maggiorati (in un periodo dove PlayStation 4 e Xbox One sono vendute a 299€, al netto di offerte), o pensare l’hardware in compatibilità con Wii U e/o 3DS, rinunciando probabilmente all’affascinante concept ibrido tra mobile e domestico (perché ovviamente sia 3DS che Wii U hanno configurazioni hardware completamente diverse da quelle nVidia Tegra sfruttate da Switch, chipset che sul segmento mobile ha già ampiamente dimostrato il suo valore). Abbiamo tenuto fuori l’opzione della retrocompatibilità software perché, per ora, siamo ancora nell’ambito del “mai dire mai”: potrebbe arrivare postuma, quantomeno per la libreria digitale, o invece più probabilmente sbarcare su Switch in maniera indiretta, grazie alla Virtual Console di eShop o a qualche edizione rimasterizzata.

 

 

Ad ogni modo la scelta migliore, e ci sembra decisamente chiaro, era quella che è stata presa: rinunciare alla storica retrocompatibilità hardware (cosa che dalle parti della concorrenza si fa da anni, per inciso) e simbolicamente liberarsi di un passato ingombrante in modo da poter disegnare presente e futuro senza nessun tipo di zavorra. Non possiamo che plaudere quindi la scelta di Nintendo, anche e soprattutto perché parte della sua utenza non capirà la manovra: Switch non sarà retrocompatibile con 3DS e Wii U (quantomeno a livello hardware), e la cosa non può che farci piacere.

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