Le mode, si sente dire spesso, spariscono e tornano ad affacciarsi sul mercato con un processo ciclico che nell’ambito tecnologico è molto difficile che si ripeta (magari il mondo tra qualche anno riscoprirà i pantaloni a zampa, ma è improbabile che i telefoni a conchiglia riprendano piede). C’è un argomento che però da quasi quarant’anni sfugge a questa regola e continua a farsi vivo con insistenza, sfruttando sogni ed aspettative nati dalla letteratura o dal cinema e puntualmente disattesi dalla tecnologia. Stiamo parlando della Realtà Virtuale, trend che sta attraversando la sua ennesima giovinezza dopo anni di cicliche morti e resurrezioni. Questa volta però le cose potrebbero andare a finire diversamente: perché? Per una serie di motivi che andremo ad analizzare tra poco.

La notte che bruciammo Chrome
Prima di lanciarsi a capofitto sul perché adesso può funzionare, è il caso di dare una veloce scorsa ai “perché no” che fino a questo momento hanno impedito a questa tecnologia di imporsi e, in un secondo momento, di mantenere del tutto le promesse.

La storia non poteva che iniziare con Nintendo…
Al netto dei primi esperimenti (citiamo tra tutti The Sword of Damocles del pioniere, in più di un senso, Ivan Sutherland) il primo vero tentativo di unire Realtà Virtuale e videogiochi non poteva che nascere in casa Nintendo nel 1987: otto anni prima del ben più famoso (ma ugualmente disastroso) Virtual Boy la casa di Kyoto rilasciava in patria il Famicom 3D System. Il visore sfruttava la tecnica Immagine Alternata, che in breve consiste nel “mostrare” all’occhio sinistro le immagini pensate per lui oscurando quello destro, facendo poi il contrario ad una velocità tale da simulare l’effetto 3D. Un approccio che permette di ottenere delle immagini tridimensionali senza ricorrere a periferiche più complesse, ma che di fatto equivaleva a dimezzare il frame-rate dei titoli (a quell’epoca fisso alle 60 immagini al secondo, 50 in Europa). L’accoglienza gelida in Giappone, da ricercarsi nello scarso supporto della casa madre (meno di una decina di giochi rilasciati), ha di fatto ucciso sul nascere la possibilità di commercializzare la periferica al di fuori della sua terra natale.

… E continuare con Sega
Mentre da li a poco in Italia Sega e Nintendo si sarebbero sfidate a colpi di Jovanotti e Jerry Calà, in patria parte della competizione ha attraversato anche la Realtà Virtuale: sempre nel 1987 la casa di Sonic lanciava i suoi SegaScope 3-D Glasses, portandoli questa volta fuori dai confini nazionali raggiungendo anche gli Stati Uniti. Le differenze terminano qui (pare addirittura che i due prodotti fossero “intercambiabili”, funzionando sulla stessa tecnologia e sfruttando un sistema di collegamento simile), e anche in questo caso pochi titoli, poco successo e tanto amaro in bocca.

 

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Nel resto del mondo Rad Racer invece del Famicom 3D System sfruttava i classici occhiali 3-D in cartone rossi e blu, inclusi nella confezione

 

 

Anche i motion controller sono parte della VR: impossibile non citare due esempi disastrosi
Realtà Virtuale però non vuol dire solo visori: non basta portare il giocatore in un mondo generato dalla console, ma bisogna permettergli di interagire in modo “naturale” con questo. Impossibile quindi non spendere qualche parola sui primi motion controller venduti (o almeno, quella era l’intenzione dei produttori) in quegli anni, dal celebre Power Glove di Nintendo arrivato anche al cinema grazie a “Il piccolo grande mago dei videogames” e al suo product placement selvaggio, cui la rivale Sega rispondeva qualche anno dopo con Activator, sorta di piattaforma ottagonale che sulla carta avrebbe dovuto captare i movimenti del giocatore e renderli a schermo (supportando anche giochi di grosso calibro come Mortal Kombat e Street Fighter II). Chiaramente non poteva che finire male anche questa volta, viste le scarse prestazioni dei due dispositivi, incapaci di catturare in modo preciso i movimenti del giocatore.

Virtual Boy è forse il tentativo di VR nei videogiochi più disastroso
Anche nel decennio dopo è ancora lotta tra le due case giapponesi, con Sega che però inizia ad accusare il colpo e, dopo aver annunciato Sega VR per Mega Drive, Saturn e arcade cancella dopo anni di sviluppo le due incarnazioni per console del visore. Nintendo come detto ci riprova nel ’95 con il famigerato Virtual Boy, il cui potenziale immersivo era inevitabilmente castrato dall’assenza di un sistema di tracking per i movimenti della testa e, soprattutto, dalla scelta suicida di optare per uno schermo monocromatico rosso per contenere i costi ed ottenere prestazioni migliori. La conseguenza, oltre a non riuscire a contenere comunque in modo efficace il costo della console, è stata quella di confezionare un’esperienza descritta da più parti come scomoda (l’uso prolungato poteva provocare anche un senso di nausea).

 

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Fuggite sciocchi! [cit.]

Mirrorshades
Ci sono un po’ di costanti nei “case studies” analizzati
Già limitandosi a questi pochi esempi emergono gli aspetti critici che, nei tentativi passati, hanno limitato la diffusione di queste tecnologie e dato vita ad una diffidenza sull’argomento che ancora oggi spaventa gli addetti ai lavori. In prima battuta, molto banalmente, è importante mettere a disposizione dell’utente una libreria di titoli convincente, specie dal punto di vista quantitativo. Bisogna poi confezionare l’esperienza in modo che sia fruibile senza problemi di sorta, tecnologici (rispondendo in modo puntuale agli “stimoli” e ai movimenti di chi gioca) ma soprattutto di salute, evitando il cosidetto “Motion Sickness”, vero spauracchio per gli addetti ai lavori che si stanno affacciando sul mercato, come testimoniato da Valve (partner di HTC per quanto riguarda HTC Vive). Non è un caso che Brendan Iribe di Oculus VR abbia più volte chiesto alle altre società di evitare di lanciare prodotti dai difetti noti per evitare di uccidere questo mercato sul nascere, trovando peraltro Shuhei Yoshida di Sony decisamente concorde.

 

Dunque, perché questa volta il matrimonio tra Realtà Virtuale e videogiochi può funzionare?
 

Gli sviluppatori ci credono
Per prima cosa, perché i vari “attori” in campo hanno dimostrato di crederci: Facebook ha investito più di 200 miliardi per accaparrarsi Oculus VR, Valve come detto è scesa in campo a fianco di HTC per il loro progetto comune e Sony ha messo sul piatto, assieme al suo Playstation VR, un numero decisamente nutrito di progetti tra studi interni (impossibile non citare Rigs, che abbiamo provato in anteprima alla Paris Games Week di quest’anno) ed esterni, attirando anche nomi come Crytek.

 

Proprio Robinson: The Journey offre il pretesto perfetto per tirare in ballo il secondo fattore da incolonnare nella lista dei “perché si”: il mercato è cambiato dai tempi del duopolio Sega-Nintendo e adesso i titoli multipiattaforma sono la norma. In soldoni, quando una software house decide di supportare uno di questi visori (a meno che non si tratti di uno studio interno) è probabile che lo stesso titolo sia poi messo a disposizione anche per gli altri, si tratti dell’interessante ADR1FT o di Trackmania Turbo. In due parole, queste ultime incarnazioni della Realtà Virtuale potranno contare su un parco titoli mai ricco come in questa occasione.

Il mercato è cambiato, più multipiatta e la “variabile impazzita” indie
Non va nemmeno sottovalutata un’altra delle “mode” del momento, che grazie al crowdfunding ha permesso anche a piccole realtà di riuscire a pubblicare i loro lavori su macchine solo pochi anni fa a loro precluse. L’italianissima MixedBag ha già rilasciato su Playstation 4 e Playstation Vita Futuridum EP Deluxe, e ne ha messo in cantiere una versione per Playstation VR battezzata Futuridum VR.

 

Lo abbiamo appena detto, ma è importante ri-sottolinearlo, il mercato è cambiato. O, più nel dettaglio, è cresciuto, arrivando a muovere cifre decisamente più importanti e raggiungendo un pubblico molto più variegato. Sul finire di questo 2015 ormai il numero di giocatori, “core” o “casual” che siano, è tale da aver ampiamente abbattuto lo stereotipo anni ’80 cui era associato il medium. Le prime stime (a dir la verità secondo chi vi scrive un po’ troppo ottimistiche, ma d’altra parte non faccio l’analista per vivere) parlano di 70 milioni di dispositivi VR venduti entro il 2017. Troppi? Forse, ma conferma quanto detto poco sopra e da una buona speranza per quanto riguarda l’interesse dei vari publisher e sviluppatori (indie o meno).

Speriamo che non finisca come Matrix
Saranno rose? Di certo intanto abbiamo notato qualche spina
Non potevamo non chiudere questo articolo un po’ in controtendenza con l’atteggiamento cautamente ottimista avuto fino ad ora. Per molti versi il matrimonio tra Realtà Virtuale e videogiochi sembra finalmente in grado di reggere, ma se durante la cerimonia ci dicessero il fatidico “parli adesso o taccia per sempre” avremmo comunque qualche dubbio da esporre. Lasciando da parte gli aspetti legati alla salute che è ancora troppo presto per dibattere con cognizione di causa e preso atto delle (citate più su) paure di chi sta attualmente sviluppando i visori, l’aspetto che ci lascia più perplessi per ora è il prezzo: le uniche indicazioni (vaghe) sono quelle di Sony, che ha posizionato il suo prodotto nella fascia di prezzo di una console. Troppo poco specifico per stabilire con precisione l’appeal di Playstation VR. Nel caso di HTC Vive invece, come dicevamo già nell’anteprima, il visore non è l’unica periferica da tenere in conto e non è solo l’esborso economico ad essere sotto esame: abbiamo potuto provare il prodotto di Valve ed HTC in una stanza allestita per l’occasione e senza nessun ostacolo dato dall’arredamento, condizioni che non è immediato replicare in casa e che non è detto siano alla portata di tutti.

Secondariamente, c’è qualche altra piccola nota incerta dal punto di vista meramente visivo: quello che abbiamo potuto provare fino a questo momento, complice l’esigenza di dover processare immagini a 360 gradi per dare davvero l’illusione di essere in un mondo virtuale, visivamente non tiene il passo delle produzioni attuali. Produzioni che in ogni caso, dicevamo la scorsa settimana, quantomeno su console non hanno avuto uno “stacco” così netto da questo punto di vista rispetto alla passata generazione. Nulla che possa pregiudicare l’immersione (anche perché progetti, pur non propriamente ludici, come The Walk indicano l’esatto contrario), però è sicuramente un altro di quegli aspetti in cui vorremo vederci chiaro (perdonate la freddura) una volta disponibili i visori.

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